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Entriamo nel “merito”: a colloquio con la prorettrice per la coesione della Comunità Universitaria Enza Pellecchia

Di cosa parliamo quando parliamo di merito? La domanda è il titolo dell’intervento che la professoressa Enza Pellecchia, prorettrice per la Coesione della Comunità Universitaria, ha tenuto lo scorso ottobre in occasione della prima Giornata della didattica organizzata in Ateneo.

Professoressa Pellecchia, perché parlare oggi del merito?

Il tema del merito ha molto a che fare con la coesione della comunità universitaria. Ho pensato quindi che valesse la pena ragionarne insieme. L’intento non è rispondere meramente alla domanda “di cosa parliamo quando parliamo di merito?”, bensì avviare una discussione su un tema affascinante e complesso. Io stessa – un tempo convinta sostenitrice del merito – ho cominciato a coltivare dei dubbi, grazie anche alle sollecitazioni di studentesse e studenti, soprattutto di studenti che dal merito avrebbero avuto tutto da guadagnare: se gli/le eccellenti diventano i più fieri accusatori della meritocrazia qualcosa vorrà dire. Allora ho cominciato a studiare.

Entriamo dunque nel merito: come nasce e si definisce il concetto?

La questione non è cosa semplice, nonostante, almeno in apparenza, siamo tutti a favore del merito, affascinati da una parola ambigua: Amartya Sen, con straordinaria efficacia, ha sottolineato che “l’idea di merito può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di esse”.
Per partire ho provato ad enucleare alcune questioni: genesi, etimologia, definizione e man mano che sono andata avanti mi sono avvicinata al lato oscuro del merito.

Cominciamo quindi dall’inizio: quando nasce il merito?

Il merito nasce come concetto rivoluzionario proprio durante la Rivoluzione Francese, allorché la tradizionale distinzione di ceto è stata abbattuta e per la prima volta è stato introdotto il concetto di mobilità sociale fondato su una distribuzione del potere con criteri acquisitivi (talento e sforzo) e non ascrittivi (ereditarietà).

L’Etimologia?

La parola viene dal latino meritum (guadagno, premio, ricompensa), sostantivo a sua volta collegato al verbo mereri (guadagnare, ottenere, ma nella forma più arcaica avere una parte, una porzione). In sintesi: merito è ciò che spetta a chi ha fatto la propria parte.

Arriviamo infine alla definizione.

Una delle definizioni più diffuse è quella di merito come risultato di intelligenza, abilità e sforzo. E qui nascono le prime difficoltà: intelligenza, abilità e sforzo non sono variabili indipendenti e oggettive; c’è da capire inoltre, quali abilità vengono considerate rilevanti, quanto incide il background socio-economico. Soprattutto, man mano che si entra nel merito, il merito rivela numerose ambiguità: su chi lo definisce e lo misura, sulla base di quali criteri e quale scopo, per includere o per escludere ad esempio e se poi strumento di emancipazione o di oppressione e infine su chi valuta i valutatori.

Molti sono i dubbi e arriviamo quindi “al lato oscuro del merito”.

Un sistema che esalta “i migliori” è incline a stigmatizzare chi arranca, alimenta la tracotanza di chi è in cima e colpevolizza chi rimane indietro lasciandolo unico responsabile del proprio fallimento. Ma neppure “chi ce la fa” se la passa meglio: la competitività sfrenata e la corsa per emergere generano una epidemia nascosta di perfezionismo, ansia da prestazione, stress. Anche chi trionfa riporta ferite, spesso profonde.

Ma alla fine è comunque desiderabile una società basata sul merito?

Domanda insidiosa. Prima di tutto perché l’idea che con lo sforzo e con il duro lavoro puoi farcela è strettamente legata all’idea che il destino è nelle tue mani: è un’idea seducente e anche, a prima vista, potentemente democratica. Non conta da dove arrivi, conta dove puoi arrivare, e dove puoi arrivare dipende da te, abbi fiducia che il tuo sforzo sarà premiato.

Ma se guardiamo con più attenzione, e ci sforziamo di guardare oltre la retorica dell’ascesa, non possiamo fare a meno di vedere che la gara è truccata: i criteri con cui il merito si attribuisce hanno assai poco di oggettivo e sono frutto di dispositivi di ingegneria sociale già esistenti, tanto più feroci quanto più si presentano come neutri. In altre parole: conta prima di tutto da dove parti. L’eguaglianza delle opportunità non è la soluzione: rischia di legittimare la posizione di superiorità dei meritevoli e di inferiorità dei non meritevoli, perpetuando le differenze sociali di partenza mascherandole come espressione del merito.

La soluzione potrebbe essere abolire merito?

Assolutamente no. Piuttosto, provare a riscriverlo, curando la parte tossica che ha trasformato un concetto rivoluzionario in un dispositivo tirannico. ll merito iniziò la sua carriera con la promessa emancipatrice che il nostro destino è nelle nostre mani, ma così facendo ha affievolito e poi reciso il legame sociale. Possiamo provare a riscrivere il merito come qualità collettiva anziché individuale: il bene comune ha come ingredienti fondamentali la solidarietà e la coesione. E’ responsabilità della collettività, nell’ottica solidaristica della costituzione, creare le condizioni affinché tutti siano messi in condizione di contribuire al benessere della collettività stessa.

Prendiamo sul serio il diritto allo studio e gli strumenti che lo rendono effettivo, e prendiamo sul serio anche la didattica. Una buona didattica – ricca anche di strumenti di supporto nel percorso di apprendimento – esprime l’assunzione di responsabilità della componente docente: perché il merito non è solo un “fatto loro” (degli studenti), è prima di tutto un “fatto nostro”. Gli studenti e le studentesse meritano una didattica che metta in grado tutte e tutti di essere meritevoli.

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